
Da Amsterdam a Kyoto, cresce il malcontento contro il turismo di massa. Ma siamo sicuri che il problema sia il turista?
Amsterdam, patria dei canali, dei tulipani e della bicicletta a norma di legge, è oggi il palcoscenico di un curioso processo: i residenti hanno deciso di portare il Comune in tribunale. Non per una buca stradale o per un aumento delle tasse, ma per troppi turisti. Sì, avete capito bene: la città che per decenni ha fatto del “benvenuto” la sua bandiera, oggi alza il cartellino rosso.
La causa nasce da un’ordinanza comunale del 2021 che fissava un tetto massimo di 20 milioni di pernottamenti l’anno. Obiettivo: contenere il cosiddetto overtourism, quel fenomeno che trasforma il centro storico in una sorta di Disneyland per adulti. Peccato che nel 2023 i pernottamenti siano stati quasi 23 milioni. Risultato: denuncia al Comune. In un colpo solo, Amsterdam diventa il primo posto al mondo dove rischi di sentirti un clandestino… pur pagando l’hotel.
Città-parco a tema o città-museo?
I promotori della campagna “Amsterdam has a Choice” parlano di città ridotta a “parco a tema”. E forse un po’ di ragione ce l’hanno: tra bici che sfrecciano, bar di cannabis e fiumi di addii al celibato in zoccoli di legno, i residenti iniziano a sentirsi figuranti non pagati. Ma la domanda è: vogliamo davvero città vuote e perfette come set cinematografici, ma senza vita?
Se i negozianti chiudono perché non riescono a pagare l’affitto, è un problema. Ma se chiudono perché vendere stroopwafel ai turisti è più redditizio, allora forse il problema non è il turista, ma il modello economico che abbiamo scelto.
Il turismo come capro espiatorio
Non è solo Amsterdam. Da Barcellona a Venezia, da Lisbona a Santorini, ormai i cortei contro il turismo sono più affollati dei musei gratis la prima domenica del mese. “Turisti tornate a casa!”, urlano i cartelli. E qualcuno, più creativo, li prende pure a spruzzate con le pistole ad acqua. Una sorta di “rito di purificazione urbana” che neanche le feste di primavera indiane.
In Spagna, la protesta ha addirittura cacciato gli affitti brevi da Barcellona entro il 2028. In Grecia si mette il numero chiuso all’Acropoli, e in Giappone si vieta l’accesso ai vicoli di Gion per proteggere la privacy delle geisha. Insomma, il turista è diventato il nuovo “colpevole universale”: inquina, fa rumore, alza gli affitti, mangia troppe tapas, si fa troppi selfie.
Ma davvero? Non sarà che il turismo è solo lo specchio delle contraddizioni delle città moderne?
Cercasi vaccino: ma per chi?
Ecco il punto: l’overtourism esiste, ma non possiamo trattarlo come un virus da debellare. Serve un “vaccino”, sì, ma fatto di regole intelligenti, infrastrutture adeguate e politiche urbane lungimiranti. Non di divieti a raffica o di guerra al forestiero.
Un turismo più equilibrato può essere una risorsa: porta lavoro, cultura, scambi, soldi per mantenere musei e monumenti. E, se gestito bene, può aiutare a preservare le città, non a distruggerle.
In fondo, l’Europa è diventata quello che è proprio grazie ai viaggi, agli scambi e alle contaminazioni culturali. Chiudere le porte ai turisti per “proteggere l’identità” rischia di fare l’effetto contrario: creare città tristi, svuotate, musealizzate e inaccessibili a tutti.
Forse il vero vaccino contro l’overtourism è più turismo, ma migliore: distribuito su tutto l’anno, su tutto il territorio, con regole chiare e senza demonizzare chi, in fondo, è venuto solo per vedere un tramonto sui canali o un’opera di Van Gogh.





